La Prima Pietra

PALESTINIANS LIVES MATTER. ISRAELE, GAZA E NOI

Nel dibattito politico che si è innescato in Italia a proposito dei bombardamenti della Striscia di Gaza abbiamo visto spesso riproporsi i tradizionali schieramenti sul tema – anche con qualche “novità”, come la presenza di Enrico Letta a una manifestazione unilaterale pro-Israele – tuttavia, senza leggere in controluce il presente attraverso il passato più recente. Si è preferito, come al solito, salmodiare la lunga vicenda di torti e ragioni da una parte e dall’altra, mettendo di lato la storia politica di questi ultimi anni.

Per questo profilo credo sia invece utile ricordare che non solo la crisi attuale, ma tutta la politica dei paesi del Mediterraneo e della stessa UE negli ultimi anni, abbiano scontato il fallimento della strategia Obama in Medio Oriente. Lo schieramento progressista mondiale allora peccò di una certa ingenuità politica e il mondo subisce oggi il prezzo di quella sconfitta, prima politica poi militare, nell’area.

Obama, il Discorso del Cairo, la caduta di Mubarak, le primavere arabe; le elezioni libere in Egitto, la sconfitta dei partiti democratici, la vittoria dei Fratelli musulmani, il golpe militare; la guerra civile in Siria, la liquefazione della Libia, la nascita e l’avanzata dell’Isis, sono eventi non obliterabili per una corretta analisi del presente. E non si può dimenticare che, fatta salva la Tunisia, il processo di democratizzazione del Medio Oriente, come auspicato e immaginato dall’amministrazione democratica americana dell’epoca, ha subito una disfatta: al suo posto, una crisi nell’area, che si è riverberata anche in Europa, con la gran massa dei migranti dalla Siria in fiamme, ma anche attraverso la Libia liquefatta come entità statuale.

La vittoria di Trump e il nuovo isolazionismo americano hanno poi operato una svolta, conclusa con la restaurazione di Assad in Siria (obiettivo geopolitico congiunto di Russia, Turchia e Israele).

Non si comprende il mondo presente, il “patto di Abramo” tra potenze del Golfo e Israele, l’emergere della xenofobia come sentimento di massa in Europa, lo stesso engagement della Russia putiniana nell’area, senza tener conto di quella sfida persa per la reazione dello status quo, che ha visto alla fine l’affermazione di una logica neowestfaliana nell’area, che non poteva non vedere alla fine sacrificati i “popoli senza Stato”: curdi e palestinesi, appunto.

Come se la crisi delle stesse entità statuali in Irak e Libia, a seguito dell’intervento di George W. Bush prima e della “primavere arabe” poi, avesse provocato una sorta di “panicus libicus”, innescando un processo opposto di difesa degli Stati e dei regimi esistenti, per il pericolo del disordine costituito dal nuovo panislamismo fondamentalista, ma pure per il carattere tellurico dell’applicazione di qualunque prassi dei diritti umani e politici nell’area.

Il collasso attuale della questione palestinese, le leggi fatte approvare dal Likud negli ultimi anni, che costituiscono Israele come Stato dei soli ebrei, la prospettiva di un regime di apartheid legale nei confronti della popolazione araba, con i provvedimenti in materia di proprietà privata con un regime opposto a seconda dell’etnia – possibilità di rivendicazione degli immobili anche solo abitati da ebrei fino al 1948, “legge dell’assenza”, grazie alla quale le proprietà palestinesi abbandonate possono essere invece confiscate dallo Stato ebraico – che hanno agito da detonatore all’ultima crisi, possono essere letti come gli esiti di quella sconfitta e della successiva politica mediorientale della presidenza Trump.

Non mi sembra perciò pertinente parlare di disinteresse dell’Occidente in generale nel Medio Oriente e per la stessa questione palestinese, come spesso si è fatto. La situazione attuale è figlia della sconfitta della strategia mediorientale della presidenza Obama di riscrivere geografia e rapporti di forza nell’area attraverso il metro della democrazia e dei diritti umani, da parte di un coacervo di interessi contrari di piccole e grandi potenze regionali e globali.

La stessa sconfitta elettorale di Hillary negli Stati Uniti (e non è difficile da comprendere l’interesse russo per quelle elezioni) e la successiva capitolazione militare delle forze democratiche in Siria, strette nella tenaglia costituita dall’Isis da un lato e dalle forze legittimiste dall’altro, appoggiate dalla Turchia e dalla Russia, si leggono in questo contesto; anche se già la crisi egiziana e il golpe militare avevano mostrato una gravissima crepa nell’intera strategia Obama-Clinton in Medio Oriente.

A quest’altezza, è evidente come la situazione attuale sia uno dei frutti dall’entente cordiale tra Trump e destra israeliana, regime turco e Putin, nata grazie a quell’alleanza “spuria” in Siria. Come mostra in modo evidente la questione di Gerusalemme, che ha agito da detonatore per gli scontri di questi giorni. Gerusalemme dichiarata “completa e unita” capitale dello Stato ebraico fin dal 1980, ma riconosciuta come tale solo dall’amministrazione Trump nel 2018, con relativo trasloco della sede diplomatica americana (nessun paese della UE ha fatto lo stesso).

La regola ora sembra essere che ognuno fa quello che vuole “a casa propria”: la logica neowestfaliana è quella che tiene insieme una certa compressione dei diritti civili (incluso quello di proprietà) dei palestinesi a Gerusalemme, la fine del sogno curdo tra Turchia e Siria, ma anche le vicende Regeni e Zaki. E mentre un altro dei vincitori della guerra civile siriana, Erdogan, nel frattempo messosi a capo di un regime personale, prova a giocare le sue carte in Medio Oriente in chiave panislamica, il quotidiano progressista israeliano Haaretz fa notare come una Hamas sempre più forte sia oggi la cosa più politicamente conveniente per Netanyahu: anzi, scrive che esisterebbe un “patto non scritto” tra il premier israeliano e Hamas, in funzione anti Autorità palestinese dei Territori (https://www.haaretz.com/opinion/.premium-netanyahu-needs-a-strong-hamas-1.981418).

È il nuovo disordine del Medio Oriente, che si riverbera anche a casa nostra: con gli eredi legittimi del fascismo e delle leggi razziali, che hanno visto crescere il loro consenso negli ultimi anni, insieme alle forze xenofobe e sovraniste, per la crisi degli immigrati, che si sono ritrovati a manifestare a favore dell’attuale governo israeliano. Come se il suprematismo religioso od etnico, la xenofobia, talora l’aperta islamofobia, agissero da orizzonte comune di un frastagliato pezzo di mondo, che si contrappone a ogni idea di integrazione democratica, di “società aperta” e di rispetto della dignità della persona.

Esattamente questo sembra lo scontro in atto: non esistono faglie “geopolitiche” o “scontri di civiltà”; piuttosto uno scontro politico globale tra sovranismo e suprematismo, variamente declinati, e progressismo democratico.

Certo, quest’ultimo ha subito una cocente sconfitta negli ultimi anni, ma non si può che ripartire da qui. Il diritto all’esistenza dello Stato di Israele non può prescindere dal rispetto dei diritti delle persone, a qualunque gruppo, etnia o nazione esse appartengano. Ed è compito dei democratici e dei progressisti, soprattutto se amici di Israele, ricordarlo, anche per esorcizzare lo spettro di una guerra civile arabo-israeliana che sembra materializzarsi in queste ultime ore (https://ilmanifesto.it/una-giornata-di-orrore-in-israele-come-si-traduce-pogrom-in-italiano/ ; https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/05/16/i-democratici-e-il-coraggio-di-criticare-israele-da-amici/6199302/  ).

Per quest’ultimo profilo, in questi giorni ha fatto molta impressione il discorso di Rashida Tlaib al parlamento degli Stati Uniti (https://www.youtube.com/watch?v=b4cCvCtOOGQ ).

Rashida Tlaib, nata a Detroit nel 1976, cittadina americana in base al ius soli (costituzionalizzato negli USA), è figlia di due immigrati palestinesi, ed è membro della Camera dei Rappresentanti per lo stato del Michigan, eletta nel distretto di Detroit per il Partito democratico. Ha chiesto ai rappresentanti del popolo americano, significativamente riecheggiando lo slogan delle recenti proteste della comunità nera americana: “Quanti palestinesi devono morire, affinché le loro vite abbiano importanza?”.

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