La Prima Pietra

Autonomia Differenziata. Relazione ad un Convegno del Laboratorio Civico Collinare e Rete di Associazioni e Comitati cittadini – 5 marzo 2023

Vorrei partire subito con un … breve riassunto delle puntate precedenti. Nel 2001 il governo Amato vara la riforma costituzionale del Titolo V, gli artt. 116 e segg. (poi confermata da referendum popolare), che amplia notevolmente competenze e poteri delle regioni a statuto ordinario. E prevede anche che queste regioni possano chiedere ulteriori forme di autonomia, nell’ambito di un lunghissimo elenco di materie accompagnate dalle relative risorse economiche.
Questa è l’autonomia regionale “differenziata”, differente appunto tra regioni, e tra materie. Una regione può chiedere, un’altra no; una regione chiede autonomia su alcune materie, un’altra regione su altre materie.
Una cosa che la propaganda leghista e di destra non sottolinea (anzi!) è che le regioni POSSONO chiedere, ma governo e Parlamento non sono obbligati a concedere. Si sente spesso dire: l’autonomia è in Costituzione, si deve perciò attuare! Niente di più falso. Le regioni chiedono, governo e poi Parlamento decidono. Questo, e non altro, è scritto in Costituzione.
Il problema, davvero critico, è che in questo elenco ci sono materie importantissime, di carattere strategico nazionale, come Istruzione, Energia, Infrastrutture, Ambiente, Cultura, e tanto altro.
Dopo referendum ridicoli in Lombardia e Veneto, nel 2017, in cui si chiedeva maggiore autonomia (il Veneto per tutte e 23 le macro-materie possibili), le richieste si sono precisate meglio: miravano essenzialmente, oltre a potere e competenze, anche e soprattutto al residuo fiscale, che sarebbe dovuto restare alla singola regione.
Il residuo fiscale, termine introdotto dal premio Nobel per l’Economia James M. Buchanan, in un suo saggio del 1950, nel caso delle regioni è calcolato come differenza tra le tasse pagate e la spesa pubblica complessiva ricevuta, ad esempio sotto forma di trasferimenti o in generale di servizi pubblici. Più precisamente, il residuo fiscale è una stima, non un dato oggettivo. Detta stima viene compiuta sottraendo dalla la spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa ciò significa che se quel territorio non facesse parte di una comunità più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore.
E’ bene chiarire che, a mio avviso, si può dire che il residuo fiscale “non esiste”, nel senso che è uno strumento statistico o poco più. In Italia la tassazione è individuale, non certo territoriale, e quindi riferimenti a residui fiscali regionali … sono del tutto fuori luogo, e fuori … Costituzione!
A Veneto e Lombardia si è aggiunta quasi subito la regione Emilia-Romagna, senza effettuare nessun referendum, ma per sola decisione della sua Giunta regionale, a guida PD, con presidente Stefano Bonaccini. Si badi, l’Emilia-Romagna non fa, a differenza delle altre due, riferimento al residuo fiscale, ma non ha detto nulla CONTRO questa impostazione “leghista”. Tanto è vero che la presenza di una regione a guida di centro-sinistra, con presidente PD, a fianco di regioni a guida leghista, di destra, ha dato nuova e maggiore forza alle oscene richieste autonomiste, di fatto secessioniste, di Veneto e Lombardia. E infatti, il mio amico e autorevole collega, prof. di Economia all’Università di Bari, Gianfranco Viesti, in maniera brillante ha definito questa delle tre regioni più ricche e più forti (economicamente, produttivamente, socialmente, eccetera) d’Italia, una secessione dei ricchi!
Se alle regioni più ricche e che contribuiscono in misura maggiore alla fiscalità generale nazionale andasse tutto o quasi il gettito colà raccolto, cifre e normi sarebbero sottratte agli altri territori. Si verrebbe a scardinare il principio di uguaglianza di diritti dei cittadini, dovunque nascano o vivano all’interno della Repubblica. E poi, chi impedirebbe, ragionando in tal balordo e scellerato modo, che Milano poi non chieda di trattenere per sé le tasse raccolte nel Comune, e non devolverle per finanziare servizi per la più povera Pavia? O, ancora, i cittadini di via Montenapoleone (strada “ricca” milanese) perché, con le loro alte tasse, dovrebbero finanziare infrastrutture e servizi nel disagiato, periferico e “povero” quartiere di Quarto Oggiaro? Capite, si arriverebbe ad una situazione impossibile ed insostenibile.
Tornando alla “storia”, nel 2018, a pochi giorni dalle elezioni che avrebbero visto il trionfo dei 5S (e, in misura minore, della Lega), il governo Gentiloni, tramite il sottosegretario Bressa, veneto, bellunese (mi dicono che nel frattempo Bressa si sia trasferito … in Alto Adige!), ha firmato, separatamente con ciascuna delle tre regioni secessioniste di fatto, accordi proprio in tal senso, che prevedono cioè che i territori più ricchi trattengano parte del gettito e del residuo fiscale.
Durante il governo Conte I, che aveva come priorità programmatica la realizzazione dell’autonomia differenziata, sembrava appunto che tali richieste diventassero realtà. La ministra leghista, e veneta, Stefàni, di fatto fiancheggiatrice e non controparte, concordava percorsi e priorità con il suo sodàle Zaia, presidente della regione Veneto.
Qualcuno si chiedeva ironico: ma la ministra leghista, la veneta Stefàni, riuscirà mai a trovare un accordo con il presidente della regione Veneto leghista, il veneto Zaia?
Fortunatamente, va detto a loro merito, i 5S, nonostante l’inserimento nel programma, si sono battuti per rallentare e rinviare (sine die?) la corsa all’autonomia differenziata; poi la pandemia ha congelato tutto. E difatti, anche durante il governo Conte II, e poi Draghi, di autonomia si è continuato a parlare (cambiavano i ministri, nel frattempo), non si è approdati a nulla.
Nel frattempo altre regioni, soprattutto del Centro-Nord, si sono messe in coda, avanzando l’intenzione di chiedere maggiore autonomia (Liguria, Piemonte, Toscana, eccetera).
Ora lo scenario è cambiato. La vittoria delle destre ha prepotentemente riportato al centro dell’azione politica della Lega l’autonomia differenziata; il governo ha approvato la legge quadro preparata dal ministro Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata, ddl poi approvato anche (con 4 voti contrari, delle regioni a guida centro-sinistra, Emilia-Romagna, Toscana, Puglia, Campania) dalla Conferenza Stato-Regioni.
Su questi temi ci sarebbero da trattare tutti gli aspetti giuridici e costituzionali, ma, visto il poco tempo che mi è rimasto, non li affronterò in maniera approfondita, rinviando ad un eventuale successivo incontro, o alla successiva discussione, una trattazione di questi aspetti. Cito solo la messa in un angolo del Parlamento, che nella approvazione degli accordi di concessione di autonomia tra governo e regione, gioca un ruolo puramente estetico, chiamato a dire sì o no, senza poter modificare di una virgola il testo concordato.
Da un punto di vista più politico, dobbiamo notare che ad una maggiore autonomia NON corrisponde una maggiore responsabilità fiscale, cioè è sempre lo Stato a mettere le tasse, tanto per parlar chiaro, e poi trasferisce i soldi. La regione non si prende quindi NESSUNA responsabilità impositiva.
Vorrei, ancora, sottolineare altri due aspetti:
– effetto dell’autonomia differenziata sugli squilibri territoriali
. effetto dell’autonomia differenziata sulle politiche pubbliche nazionali/locali

Quand’anche ci fosse equità ed equilibrio territoriale senza grosse differenze (e ovviamente purtroppo NON è così) le scelte di autonomia differenziata NON sarebbero utili e giuste.
Infatti, le richieste di autonomia riguardano talmente numerose materie e sono talmente pervasive, da provocare in ogni caso una inaccettabile frammentazione delle politiche pubbliche.
Lasciamo da parte per un attimo (se c’è tempo ci torno) l’Istruzione, che è evidentemente il caso più eclatante e che subirebbe i peggiori effetti di una autonomia differenziata; chiediamoci, quindi, quali conseguenze avrebbe la competenza regionale in materie come le grandi reti nazionali di trasporto e navigazione; oppure produzione e trasporto di energia. In quest’ultimo caso, le ultime vicende internazionali (aumento del gas, guerra, eccetera …) spingono a pensare ad una dimensione sovranazionale, europea per lo meno, altro che ridursi ad una asfittica visione regionale italiana! Ma, in definitiva, che cosa chiedono le regioni secessioniste? Solo alcuni esempi: acquisizione al demanio regionale della rete ferroviaria e autostradale; l’approvazione delle infrastrutture strategiche di competenza statale che interessano territorio regionale; le competenze statali in materia di immigrazione; addirittura, per chiudere, l’equivalenza terapeutica dei farmaci: immaginate 20 piccole AIFA, una per regione ,con norme e regole diverse per i farmaci! Un delirio! Eppure, Calderoli (o Zaia o Fontana) affermano che l’autonomia significa “semplificare” e “migliorare” la vita dei cittadini. Che faccia di … bronzo!
Ancora, nessuno ha mai posto e approfondito la questione: come si giustifica l’esistenza di richieste del genere? Si parla, in maniera generica, “di attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia in forza di specificità proprie della regione e funzionali alla sua crescita e sviluppo”. E basta! Dovrebbe invece essere messo nero su bianco che le richieste devono essere accompagnate da specifiche e dettagliate motivazioni, caso per caso, riferibili in maniera esplicita e riscontrabile a particolarità e peculiarità della regione richiedente.
Io credo che sia tempo, inoltre, di una valutazione complessiva dell’esperienza delle regioni, anche di quelle a statuto speciale, e di una rivisitazione del concetto di autonomia e delle autonomie. Perché è vero, un decentramento che consenta forme di autogoverno e di maggiore vicinanza delle istituzioni ai cittadini, è forse auspicabile (ed in genere, nella storia della nostra Repubblica, il decentramento e le autonomie sono nella tradizione del pensiero progressista e di sinistra); ma un buon decentramento funziona se:

1.Si sa bene chi fa cosa, cioè si individuano i vari livelli di responsabilità
2.Si hanno a disposizione risorse ingenti, finanziare e di persone/lavoratori/cervelli, sufficienti a far fronte a queste responsabilità
3.Ci sia la possibilità di controllare, da parte dello Stato centrale e soprattutto dei cittadini, l’attività “autonoma”, poterla valutare e giudicare, fino ad attivare, se il caso, poteri sostitutivi

In Italia invece c’è grande confusione nelle responsabilità; c’è grande conflittualità tra Stato e Regioni; una scarsissima o nulla collaborazione orizzontale, chiamiamola così, tra le regioni: la gestione della qualità dell’acqua del Po, ad esempio, non può essere affidata a ciascuna delle regioni attraversate dal fiume: il mare Adriatico non farà distinguo se l’inquinamento proviene da una regione ad autonomia più o meno differenziata, con più o meno potere sulle acque del Po, se l’acqua inquinata viene dalla Lombardia o dall’Emilia-Romagna!
I Comuni poi sono già schiacciati dall’Ente Regione (già ora, ad esempio, Vincenzo De Luca ha molto più potere complessivo di Gaetano Manfredi), lo sarebbero ancora di più in caso di aumento di competenze e potere della regione, perché si andrebbe a costituire un cosiddetto neo-centralismo regionale peggiore del centralismo statale/nazionale.
Sulle risorse: esiste una legge, che non ha a che vedere con l’autonomia differenziata, ma, relativa al federalismo fiscale, è un tassello che si intreccia con queste nuove richieste. E’ la legge Calderoli, la 42/2009, che, di fatto, non è mai stata attuata. I LEP , Livelli Essenziali delle Prestazioni (meglio definirli Livelli Uniformi delle Prestazioni, ché essenziali può far pensare(!) a livelli davvero minimi!) devono essere definiti: ma .. .poi … chi li garantisce? E ancora: sono davvero garanzia di equità?
Abbiamo ahimé l’esempio pessimo dei LEA in Sanità: esistono da anni, sono noti e definiti, eppure … eppure non servono ad esempio a stabilire la ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale. Che si basa su numero di abitanti per regione, ed età della popolazione della regione. La Campania, che è la regione più giovane d’Italia (l’età media dei suoi abitanti è cioè più bassa di quella di tutte le altre), riceve in proporzione molti meno soldi rispetto alla Liguria, o all’Emilia-Romagna, eccetera (regioni con età media della popolazione più alta). In Campania, studi recentissimi lo confermano, ci sono moltissimi adolescenti e giovani, ad esempio, sovrappeso o addirittura obesi, con gravi rischi per la salute, e quindi in questo modo il fabbisogno è evidente che è più alto che in altre regioni, ma questo parametro (le patologie) NON viene preso in considerazione, e i trasferimenti alla Campania sono molto bassi rispetto alle necessità. Sui questo Vincenzo De Luca ha 100 volte ragione! Non vorrei che con i LEP per le altre materie si vada verso una situazione simile. Il rischio c’è.

E se a livello regionale ci sono queste disparità, non c’è quindi perequazione, la non applicazione, anzi una applicazione al contrario della 42/2009, con osceni e bizzarri parametri, ha portato alla situazione dei tanti zeri al Sud, che così lucidamente ci ha raccontato Marco Esposito. Se a Caserta non c’è trasporto pubblico, si assume che il fabbisogno, e di conseguenza i trasferimenti di risorse finanziarie per il trasporto pubblico a Caserta siano pari a … 0 euro. Se a Reggio Emilia ci sono centinaia di asili nido, e a Reggio Calabria pochissimi asili nido, invece di invertire la tendenza, e finanziare costruzione e mantenimento (personale, trasporti scolastici, mense, eccetera …) di asili nido a Reggio Calabria, si è deciso per anni (fortunatamente in quest’ultimo periodo pare che le cose comincino a cambiare) di finanziare Reggio Emilia con 9 milioni di euro l’anno, e Reggio Calabria con 90mila euro l’anno! Una vergogna!

Un’altra cosa: Stefano Bonaccini sostiene, lo ha fatto spesso, NON chiediamo un euro in più. Tenendo presente ancora l’esempio degli asili nido di Reggio Emilia e di Reggio Calabria, significa, né più né meno, garantirsi la cosiddetta spesa storica: chi ha dato, ha dato; chi ha avuto, ha avuto. E pazienza se le cifre (“non chiediamo un euro in più!”) siano sfacciatamente sbilanciate a favore di città come Reggio Emilia, di regioni come Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna. Emilia-Romagna che per decenni è stata laboratorio teorico e attuativo del regionalismo, della buona pratica del regionalismo. La sua classe politica ha progettato e costruito una organizzazione dei poteri pubblici ben bilanciata tra centro e periferie, con una capacità di organizzazione e di realizzazione che ha fornito esempi da imitare a governi regionali e locali di tutta Italia. E questo per almeno 40-50 anni. Questa volta ha progettato un cambiamento solo per sé, chiedendo cose (alcune del tutto condivisibili, MA SOLO PER SE’, non per l’intero Paese). Ecco, l’egoismo, la protervia, l’arroganza, di chi si sente più forte e vuol diventarlo … ancora di più! Tra l’altro, la faccenda “non un euro in più” va verificata. L’accordo prevede sostanzialmente che i servizi erogati siano in qualche modo legati al gettito fiscale territoriale: bene, tale posizione non è progressista, tantomeno di sinistra, e non è neanche liberale! L’Emilia-Romagna ad esempio NON chiede, come le altre regioni, che personale scolastico e sanitario passino sotto l’ordinamento giuridico regionale, questo no, ma SI LIMITA a chiedere l’istituzione di appositi fondi che le consentano di operare nel senso dell’integrazione del personale disponibile; un modo non eclatante ma efficace per poter fare affidamento su un numero maggiore di personale scolastico e sanitario.
Ma l’Emilia-Romagna avanza e concorda anche ALTRE richieste di fondi speciali: per Università, Cultura, Spettacolo, tutti fondi le cui dotazioni sarebbero di competenza di commissioni paritetiche Stato-Regione, con ruolo marginale del Parlamento. “Non un euro in più” dovrebbe significare quindi che questi fondi speciali siano tutti … di 0 euro? Ovviamente non sarà così …
I minori servizi, la loro qualità in genere più bassa al Sud, sono cose che dipendono da incapacità (o peggio), oppure da carenza di risorse? Probabilmente da entrambe, ma, non essendoci parametri e modalità di valutazione a cui fare riferimento, per controllare e valutare, non si può dire. Eppure la Sose, agenzia del MEF, solo pochi anni fa, dopo aver stilato una classifica dei principali comuni d’Italia in base alla qualità e alla quantità di servizi offerti ai cittadini (classifica che ovviamente vedeva quasi tutte le città del Sud agli ultimi posti, e nei primi posti quasi tutte città del Nord e del Centro), con una banale ma “geniale” operazione calcolava l’efficienza dei Comuni, cioè normalizzava la qualità dei servizi rispetto alle risorse, ecco che quasi d’incanto le pessime Bari, Foggia, Napoli, avevano la stessa efficienza di Torino … Nessuno allora si è mai chiesto: proviamo a dare a Foggia, Bari, Napoli, gli stessi soldi che si danno a Torino, e vediamo se il livello dei servizi cresce fino a raggiungere quello (decisamente buono) di Torino? Tornando ai 3 punti per un buon decentramento, ecco mostrato che manca in Italia, anche il terzo punto, la possibilità di controllo e valutazione. Con l’aggravante che mai lo Stato mette in campo i poteri sostitutivi in caso di inadempienze o incapacità conclamate da parte degli Enti Locali (questa questione sta assumendo un interesse elevato in questi giorni, in cui si sta mettendo sotto esame l’operato, agli inizi della drammatica pandemia, delle regioni, certo, ma anche dello Stato centrale, del governo, nella fattispecie, che non avrebbe appunto attivato quei poteri sostitutivi che la legge gli concede, per porre rimedio a incapacità ed errori nella prima fase della gestione Covid, specialmente in Lombardia).
Un tentativo di limitare rischi e danni di questa impostazione leghista e secessionista della “autonomia”, è la proposta di legge di riforma costituzionale di iniziativa popolare, preparata da Massimo Villone ed altri, per la quale si stanno raccogliendo le firme per la sua presentazione. Un relativamente recente modifica del regolamento del Senato impone che le proposte di legge di iniziativa popolare siano sicuramente discusse (entro un certo tempo), per cui si è sicuri che tale presentazione costringerà, in Parlamento, tutte le forze politiche, a prendere una posizione chiara, alla luce del sole, di fronte all’intero Paese.
Le firme, oltre che con il tradizionale metodo cartaceo su moduli, possono essere apposte anche on line, collegandosi al sito del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale (di cui Villone è presidente), e seguendo le istruzione fino a “firmare” avendo a disposizione lo SPID.

Infine, la già grave situazione della Campania, rischia di peggiorare con l’introduzione dell’autonomia differenziata: già oggi la Svimez ci fa sapere che la scuola in Campania riceve molte meno risorse rispetto alle regioni del Nord; che gli studenti della scuola primaria frequentano in pratica 1 anno in meno nel ciclo di 5 anni, frequentando ogni anno circa 200 ore in meno l’anno: nei 5 anni si arriva a 1000 ore, circa un intero anno scolastico, appunto (per edifici in coabitazione; tempo pieno inesistente; eccetera …) La percentuale di scuole primarie senza mensa in Campania, inoltre, è elevatissima.
Nel settore sanitario negli ultimi dieci anni già c’è stato un depauperamento del personale medico: ogni anno, 1000 medici lasciano la regione per spostarsi al Nord o all’estero; si stima poi che per il cosiddetto turismo sanitario siano stati spesi, negli ultimi 10 ani, circa 14 miliardi: soldi assegnati alla Campania, a tutte le regioni meridionali, che poi, per cure e spese di suoi cittadini effettuate in altre regioni, si devono “restituire” alle Regioni che hanno erogato il servizio. Tutto questo, con maggiore attrattiva di personale e strutture al Nord, aumenterebbe ancora con l’autonomia differenziata, che andrebbe ad “avvantaggiare” le regioni già più ricche. Ancora più medici, attratti da stipendi più alti, e ancora più pazienti, attratti da maggior numero di medici, e maggior numero e più attrezzate strutture ospedaliere e/o ambulatoriali, si muoverebbero dalla Campania verso le “ricche” regioni del Nord.
Infine, una parte un po’ più politique-politicienne. La recente elezione di Elly Schlein a segretaria del PD non può che essere accolta come un elemento di speranza, di apertura, oltre che a tanti altri temi (da quelli della guerra e della pace, a quelli del lavoro, dei giovani e delle donne, a quelli dei diritti civili giammai disgiunti da quelli sociali, all’apertura a milioni di cittadini/elettori a cui restituire un motivo di interesse nella politica, eccetera), proprio a quello che ci sta a cuore in questo momento. Nella sua mozione per il congresso, infatti, ed in ogni occasione possibile, Schlein ha ribadito con forza e nettezza la contrarietà ad ogni ipotesi e disegno di frammentazione del Paese, di ulteriore allargamento del gap tra parti più ricche e meno ricche, la volontà di fare ancora della questione meridionale una grande questione nazionale.
Scrive Schlein: “Il disegno di legge di Calderoli sull’autonomia differenziata è una proposta inaccettabile, che affonda le sue radici nel progetto secessionista della Lega. A colpi di forzature si è scavalcato il confronto con regioni e territori nelle sedi opportune, si è scavalcato il Parlamento prevedendo di fissare i Livelli essenziali di prestazione con un DPCM, quando si tratta di diritti fondamentali delle persone sull’accesso a salute, trasporti, istruzione. Il modello della destra deforma l’ispirazione autonomista della Costituzione e cristallizza le disuguaglianze territoriali. Va rigettato con forza, perché non corrisponde agli interessi del Paese. Non è un disegno emendabile. E noi non possiamo scendere a compromessi su questo punto. La questione meridionale è una grande questione nazionale. Non esiste riscatto del Paese che non passi dal riscatto del Sud. E non esiste riscatto del Sud che non passi dal riscatto delle donne e dei giovani, che studiano e si formano, che lavorano e fanno innovazione e impresa. Il Sud ha tutte le potenzialità per diventare la grande piattaforma italiana per l’economia verde e le energie rinnovabili, il ponte logistico e produttivo tra l’Europa e il Mediterraneo. Ed è fondamentale attuare nei tempi previsti i progetti finanziati dalle risorse nazionali ed europee.”
Ecco, ricordiamo che i finanziamenti del NGEU, gestiti da noi con il nostro Pnrr, sono stati assegnati (per l’ottimo lavoro di ministri e presidente del Consiglio del governo Conte II, da Conte stesso, ad Amendola, a Gualtieri, e a tanti altri) in misura di 209 miliardi all’Italia, basandosi su precisi criteri. Difatti la UE ha assegnato a tutti i paesi dell’Unione una quota di finanziamenti, per superare/combattere la grave crisi dovuta al Covid, e per ridurre/eliminare i divari tra diverse zone dei singoli Paesi, sostanzialmente sulla base di tre fondamentali parametri: disoccupazione 2015-2019, inverso PIL pro-capite, numero di abitanti. Dei 750 miliardi totali, una parte (360 miliardi) sono prestiti da restituire da parte di ciascun paese destinatario del prestito, una parte (390 miliardi) sono a fondo perduto, nel senso che verranno “restituiti” da tutti i paesi dell’Unione in maniera proporzionale alla loro partecipazione al bilancio della UE, indipendentemente da quanto abbiano ricevuto (ci possono essere paesi che “restituiscono” più di quello che ricevono, e sono in genere, come deve essere, i paesi più ricchi; l’Italia, al contrario, beneficerà di una consistente parte a fondo perduto, che dovrà restituire solo in parte). La cancelliera Merkel ha operato utilizzando il cosiddetto altruismo egoistico, ben nota categoria della psicologia, sapendo che i paesi più ricchi in questo momento devono aiutare i più deboli e disagiati, pena la fine dell’Europa, e che la Germania può avere vantaggi, anche in termini economici, produttivi, occupazionali, ecc …, solo da una Europa, se non ricca, almeno solida e non alla canna del gas. Molto intelligentemente, noto en passant, Angela Merkel ha voluto finanziare con centinaia e centinaia di miliardi la “rinascita” e lo sviluppo delle più povere regioni dell’est-Germania, dopo la riunificazione; nel settore universitario, ad esempio, oltre a dotare di ingenti finanziamenti le Università dell’Est, ha incentivato (con stipendi più alti e con finanziamenti a progetti di ricerca) lo spostamento di eccellenti docenti e ricercatori dalle ricche Università dell’Overt alle più povere e bisognose di rilancio Università dell’Est. Che lungimiranza! Esattamente il contrario di quello che si fa da noi, dove ci si preoccupa di “fermare Napoli”, perché solo così “Milano corre”! (vedi ad esempio Per risollevare l’Italia Milano deve correre e Napoli si deve fermare ).

Un altro eclatante e pessimo esempio di miopia poitica, o, meglio, di arroganza e disinteresse verso il Mezzogiorno, di ignoranza in economia (per non parlare di vero e proprio dolo!), è la decisione di puntare, con ingenti finnziamenti, sui porti di Genova e Trieste: Trieste, badate bee, dove, per arrivare, le navi devono “imbottigliarsi” nello stretto mare Adriatico!

Naturalmente, non ci vogliono particolari geni, andrebbero svuiluppati i grandi sistemi portuali del Mezzogiorno, proprio al centro del Mediterraneo, e auindi luoghi strategici e on eneormi vantaggio per i trasporti e lo scambio di merci, a partire dall’importantissimo nodo/sistema portuale di Gioia Tauro (con annessi i vicini Augusta, Catania, Taranto), unico porto, sembra, capace, per i suoi alti fodali, di accogliere le grosse navi cargo con migliaia di tonnellate di merci (senza dimenticare la rivitalizzazione e lo sviluppo dei sistemi portuali di Palermo-Porto Empedocle-Trapani; Bari-Brindisi; Napoli-Castellammare-Salerno). Se già cos’ si pensa a finanziare (sbagliando economicamente e politicamente) il Nord, figuriamoci con la maggiore autonomia concessa alle regioni el Nord (la Liguria ha già chiesto, proprio in tema, la piena potestà sul porto di Genova!).
Obiettivo dichiarato della UE, AL CONTRARIO, nello stabilire la ripartizione dei fondi NGEU tra i vari paesi aderenti, è (stato) quello di colmare i divari esistenti tra le varie regioni d’Europa: ad una Italia ipoteticamente “senza Sud”, una attendibile stima parla di una assegnazione di soli 74 miliardi. La UE ritiene che si possa uscire dalla crisi se, una volta per tutte, i vari stati riusciranno a risolvere i loro divari di sviluppo interno, avviando processi straordinari di perequazione e ammodernamento che coinvolgano le aree in maggiore ritardo.
E’ tempo di “unire” l’Italia, non certo il momento di “spacchettarla” e “frammentarla”: queste le parole chiare che la stessa Schlein ha pronunciato recentemente.
L’elezione di Schlein, quindi, che ha battuto Stefano Bonaccini, fino a pochi mesi fa, ahimé, fautore, al pari di Zaia e Fontana, di richieste di maggiore autonomia (e, nel migliore dei casi, mantenimento della spesa storica, con l’aggravarsi, purtroppo dei divari esistenti), potrebbe essere foriera di sviluppi positivi in questa direzione, la condizione perché finalmente il PD torni ad essere forza politica “di parte”, ma che pensa, lavora, fa politica, governa, davvero nell’interesse di tutti.

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