La Prima Pietra

Due brevi lezioni sull’autonomia differenziata. Parte 1

(prima parte di un più lungo articolo la cui seconda parte è pubblicata su questa stessa rivista).

Autonomia Differenziata. Facciamo subito … un passo indietro, con un breve … riassunto delle puntate precedenti. Nel 2001 il governo Amato vara la riforma costituzionale del Titolo V, gli artt. 116 e segg.  (poi confermata da referendum popolare), che amplia notevolmente competenze e poteri delle regioni a statuto ordinario. E prevede anche che queste regioni possano chiedere ulteriori forme di autonomia, nell’ambito di un lunghissimo elenco di materie accompagnate dalle relative risorse economiche.

Questa è l’autonomia regionale “differenziata”, differente appunto tra regioni, e tra materie. Una regione può chiedere, un’altra no; una regione chiede autonomia su alcune materie, un’altra regione su altre materie.

Una cosa che la propaganda leghista e di destra non sottolinea (anzi!) è che le regioni POSSONO chiedere, ma governo e Parlamento non sono obbligati a concedere. Si sente spesso dire: l’autonomia è in Costituzione, si deve perciò attuare! Niente di più falso. Le regioni chiedono, governo e poi Parlamento decidono. Questo, e non altro, è scritto in Costituzione.

Il problema, davvero critico, è che in questo elenco ci sono materie importantissime, di carattere strategico nazionale, come Istruzione, Energia, Infrastrutture, Ambiente, Cultura, e tanto altro.

Dopo referendum ridicoli in Lombardia e Veneto, nel 2017, in cui si chiedeva maggiore autonomia (il Veneto per tutte e 23 le macro-materie possibili), le richieste si sono precisate meglio: miravano essenzialmente, oltre a potere e competenze, anche e soprattutto al residuo fiscale, che sarebbe dovuto restare alla singola regione.

Il residuo fiscale, termine introdotto dal premio Nobel per l’Economia James M. Buchanan, in un suo saggio del 1950, nel caso delle regioni è calcolato come differenza tra le tasse pagate e la spesa pubblica complessiva ricevuta, ad esempio sotto forma di trasferimenti o in generale di servizi pubblici. Più precisamente, il residuo fiscale è una stima, non un dato oggettivo. Detta stima viene compiuta sottraendo dalla la spesa pubblica complessiva che ha luogo in un territorio, l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio. Se la differenza è negativa ciò significa che se quel territorio non facesse parte di una comunità più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore.

E’ bene chiarire che, a mio avviso, si può dire che il residuo fiscale “non esiste”, nel senso che è uno strumento statistico o poco più. In Italia la tassazione è individuale, non certo territoriale, e quindi riferimenti a residui fiscali regionali … sono del tutto fuori luogo, e fuori … Costituzione!

A Veneto e Lombardia si è aggiunta quasi subito la regione Emilia-Romagna, senza effettuare nessun referendum, ma per sola decisione della sua Giunta regionale, a guida PD, con presidente Stefano Bonaccini. Si badi, l’Emilia-Romagna non fa, a differenza delle altre due, riferimento al residuo fiscale, ma non ha detto nulla CONTRO questa impostazione “leghista”. Tanto è vero che la presenza di una regione a guida di centro-sinistra, con presidente PD, a fianco di regioni a guida leghista, di destra, ha dato nuova e maggiore forza alle oscene richieste autonomiste, di fatto secessioniste, di Veneto e Lombardia. E infatti, il mio amico e autorevole collega, prof. di Economia all’Università di Bari, Gianfranco Viesti, in maniera brillante ha definito questa delle tre regioni più ricche e più forti (economicamente, produttivamente socialmente, eccetera) d’Italia, una secessione dei ricchi!

Se alle regioni più ricche e che contribuiscono in misura maggiore alla fiscalità generale nazionale andasse tutto o quasi il gettito colà raccolto, cifre e normi sarebbero sottratte agli altri territori. Si verrebbe a scardinare il principio di uguaglianza di diritti dei cittadini, dovunque nascano o vivano all’interno della Repubblica. E poi, chi impedirebbe, ragionando in tal balordo e scellerato modo, che Milano poi non chieda di trattenere per sé le tasse raccolte nel Comune, e non che siano devolute per finanziare servizi per la più povera Pavia? O, ancora, i cittadini di via Montenapoleone (strada “ricca” milanese) perché, con le loro alte tasse, dovrebbero finanziare infrastrutture e servizi nel disagiato, periferico e “povero” quartiere di Quarto Oggiaro? Capite, si arriverebbe ad una situazione impossibile ed insostenibile.

Tornando alla “storia”, nel 2018, a pochi giorni dalle elezioni che avrebbero visto il trionfo dei 5S (e, in misura minore, della Lega), il governo di centro-sinistra a guida Gentiloni, tramite il sottosegretario Bressa, veneto, bellunese (mi dicono che nel frattempo Bressa si sia trasferito … in Alto Adige!), ha firmato, separatamente con ciascuna delle tre regioni secessioniste di fatto, accordi proprio in tal senso, che prevedono cioè che i territori più ricchi trattengano parte del gettito e del residuo fiscale.

Durante il governo Conte I, che aveva come priorità programmatica la realizzazione dell’autonomia differenziata, sembrava appunto che tali richieste diventassero realtà. La ministra leghista, e veneta, Stefàni, di fatto fiancheggiatrice e non controparte, concordava percorsi e priorità con il suo sodàle Zaia, presidente della regione Veneto.  Qualcuno si chiedeva ironico: ma la ministra leghista, la veneta Stefàni, riuscirà mai a trovare un accordo con il presidente della regione Veneto, leghista, il veneto Zaia?

Fortunatamente, va detto a loro merito, i 5S, nonostante l’inserimento nel programma, si sono battuti per rallentare e rinviare la corsa all’autonomia differenziata; poi la pandemia ha congelato tutto. E difatti, anche durante il governo Conte II, e poi Draghi, di autonomia si è continuato a parlare (cambiavano i ministri, nel frattempo), non si è approdati a nulla.

Nel frattempo altre regioni, soprattutto del Centro-Nord, si sono messe in coda, avanzando l’intenzione di chiedere maggiore autonomia (Liguria, Piemonte, Toscana, eccetera).

Ora lo scenario è cambiato. La vittoria delle destre ha prepotentemente riportato al centro dell’azione politica della Lega l’autonomia differenziata; il governo ha approvato la legge quadro preparata dal ministro Calderoli per l’attuazione dell’autonomia differenziata, ddl poi approvato anche (con 4 voti contrari, delle regioni a guida centro-sinistra, Emilia-Romagna, Toscana, Puglia, Campania) dalla Conferenza Stato-Regioni.

Su questi temi ci sarebbero da trattare tutti gli aspetti giuridici e costituzionali, che cercherò di delineare in un secondo momento. Cito solo la messa in un angolo del Parlamento, che nella approvazione degli accordi di concessione di autonomia tra governo e regione, gioca un ruolo puramente estetico, chiamato a dire sì o no, senza poter modificare di una virgola il testo concordato.

Da un punto di vista più politico, dobbiamo notare che ad una maggiore autonomia NON corrisponde una maggiore responsabilità fiscale, cioè è sempre lo Stato a mettere le tasse, tanto per parlar chiaro, e poi trasferisce i soldi. La regione non si prende quindi NESSUNA responsabilità impositiva.

Vorrei, ancora, sottolineare altri due aspetti:
– effetto dell’autonomia differenziata sugli squilibri territoriali
– effetto dell’autonomia differenziata sulle politiche pubbliche nazionali/locali

Quand’anche ci fosse equità ed equilibrio territoriale senza grosse differenze (e ovviamente purtroppo NON è così) le scelte di autonomia differenziata NON sarebbero utili e giuste.

Infatti, le richieste di autonomia riguardano talmente numerose materie e sono talmente pervasive, da provocare in ogni caso una inaccettabile frammentazione delle politiche pubbliche.

Lasciamo da parte per un attimo l’Istruzione (anche su questo tema, cercherò di scriverne in un secondo momento), che è evidentemente il caso più eclatante e che subirebbe i peggiori effetti di una autonomia differenziata; chiediamoci, quindi, quali conseguenze avrebbe la competenza regionale in materie come le grandi reti nazionali di trasporto e navigazione; oppure produzione e trasporto di energia. In quest’ultimo caso, le ultime vicende internazionali (aumento del gas, guerra, eccetera) spingono a pensare ad una dimensione sovranazionale, europea per lo meno, altro che ridursi ad una asfittica visione regionale italiana! Ma, in definitiva, che cosa chiedono le regioni secessioniste? Solo alcuni esempi: acquisizione al demanio regionale della rete ferroviaria e autostradale; l’approvazione delle infrastrutture strategiche di competenza statale che interessano il territorio regionale; le competenze statali in materia di immigrazione; addirittura, per chiudere, l’equivalenza terapeutica dei farmaci: immaginate 20 piccole AIFA, una per regione, con norme e regole diverse per i farmaci! Un delirio! Eppure, Calderoli (o Zaia o Fontana) affermano che l’autonomia significa “semplificare” e “migliorare” la vita dei cittadini. Che faccia di … bronzo!

Ancora, nessuno ha mai posto e approfondito la questione: come si giustifica l’esistenza di richieste del genere? Si parla, in maniera generica, “di attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia in forza di specificità proprie della regione e funzionali alla sua crescita e sviluppo”. E basta! Dovrebbe invece essere messo nero su bianco che le richieste devono essere accompagnate da specifiche e dettagliate motivazioni, caso per caso, riferibili in maniera esplicita e riscontrabile a particolarità e peculiarità della regione richiedente.

Io credo che sia tempo, inoltre, di una valutazione complessiva dell’esperienza delle regioni, anche di quelle a statuto speciale, e di una rivisitazione del concetto di autonomia e delle autonomie. Perché è vero, un decentramento che consenta forme di autogoverno e di maggiore vicinanza delle istituzioni ai cittadini, è forse auspicabile (ed in genere, nella storia della nostra Repubblica, il decentramento e le autonomie sono nella tradizione del pensiero progressista e di sinistra); ma un buon decentramento funziona se:

1.Si sa bene chi fa cosa, cioè si individuano i vari livelli di responsabilità.
2.Si hanno a disposizione risorse ingenti, finanziarie e di persone/lavoratori/cervelli, sufficienti a far fronte a queste responsabilità.
3.Ci sia la possibilità di controllare, da parte dello Stato centrale e soprattutto dei cittadini, l’attività “autonoma”, per poterla valutare e giudicare, fino ad attivare, se il caso, poteri sostitutivi.

In Italia invece c’è grande confusione nelle responsabilità; c’è grande conflittualità tra Stato e Regioni; una scarsissima o nulla collaborazione orizzontale, chiamiamola così, tra le regioni: la gestione della qualità dell’acqua del Po, ad esempio, non può essere affidata a ciascuna delle regioni attraversate dal fiume,: il mare Adriatico non farà distinguo se l’inquinamento proviene da una regione ad autonomia più o meno differenziata, con più o meno potere sulle acque del Po, se l’acqua inquinata viene dalla Lombardia o dall’Emilia-Romagna!
I Comuni poi sono già schiacciati dall’Ente Regione (già ora, ad esempio, Vincenzo De Luca ha molto più potere complessivo di Gaetano Manfredi), lo sarebbero ancora di più in caso di aumento di competenze e potere della regione, perché sui andrebbe a costituire un cosiddetto neo-centralismo regionale peggiore del centralismo statale/nazionale.

Sulle risorse: esiste una legge, che non ha a che vedere con l’autonomia differenziata, ma, relativa al federalismo fiscale, è un tassello che si intreccia con queste nuove richieste. E’ la legge Calderoli, la 42/2009, che, di fatto, non è mai stata attuata. I LEP, Livelli Essenziali delle Prestazioni (meglio definirli Livelli Uniformi delle Prestazioni, ché essenziali può far pensare/temere a livelli davvero minimi!) devono essere definiti: ma .. .poi … chi li garantisce? Con quali soldi? (Per portare il Mezzogiorno e le zone interne allo stesso livello di quantità e qualità di servizi delle zone più ricche, è stato stimato ci vogliano tra 80 e 100 miliardi IN PIU’ ogni anno!) E ancora: I LEP sono davvero garanzia di equità?
Abbiamo ahimé l’esempio pessimo dei LEA in Sanità: esistono da anni, sono noti e definiti, eppure … eppure non servono ad esempio a stabilire la ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale. Che si basa su numero di abitanti per regione, e età della popolazione della regione. La Campania, che è la regione più giovane d’Italia (l’età media dei suoi abitanti è cioè più bassa  di quella di tutte le altre), riceve in proporzione molti meno soldi rispetto alla Liguria, o all’Emilia-Romagna, eccetera (regioni con età media della popolazione più alta). In Campania, studi recentissimi lo confermano, ci sono moltissimi adolescenti e giovani, ad esempio, sovrappeso o addirittura obesi, con gravi rischi per la salute, e quindi in questo modo il fabbisogno è evidente come sia più alto che in altre regioni, ma questo parametro (le patologie) NON viene preso in considerazione, e i trasferimenti alla Campania sono molito bassi rispetto alle necessità. Sui questo il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca ha 100 volte ragione! Non vorrei che con i LEP per le altre materie si vada verso una situazione simile. Il rischio c’è.

E se a livello regionale ci sono queste disparità, non c’è quindi perequazione, la non applicazione, anzi una applicazione al contrario della 42/2009, con osceni e bizzarri parametri, ha portato alla situazione dei tanti zeri al Sud, che così lucidamente ci ha raccontato Marco Esposito nei suoi articoli, nei suoi libri. Se a Caserta non c’è trasporto pubblico, si assume che i finanziamenti per il trasporto pubblico a Caserta siano pari a … 0 euro. Se a Reggio Emilia ci sono centinaia di asili nido, e a Reggio Calabria pochissimi asili nido, invece di invertire la tendenza, e finanziare costruzione e mantenimento (personale, trasporti scolastici, mense, eccetera) di asili nido a Reggio Calabria, si è deciso per anni (fortunatamente in quest’ultimo periodo pare che le cose comincino a cambiare) di finanziare Reggio Emilia con 9 milioni di euro l’anno (deve pensare a tanti asili nido!), e Reggio Calabria con 90mila euro l’anno (ne ha pochi, 90mila euro bastano!) Una vergogna!

Ancora, infine, una questione interessante: si continua, e si intreccia con la battaglia meridionalista, e con la questione autonomia differenziata, il programma e l’attuazione del Pnrr. Prima di tutto la questione dell’arbitrarietà con cui (quasi a dire: “vi facciamo un grande favore! “) è stato stabilito che il 40% del finanziamento all’Italia del NextGeneration EU (NGEU) vada speso per il Mezzogiorno: l’Italia ha ottenuto all’incirca 209 miliardi di euro, in base a tre semplici e chiarissimi parametri (utilizzati per tutti i Paesi europei, ovviamente): numero di abitanti; inverso del PIL pro-capite; tasso di disoccupazione. Quindi: più abitanti, PIL più basso, disoccupazione più alta, portano a finanziamenti più alti. Ebbene, si è stimato che “senza” il Sud, all’Italia sarebbero spettati 74 miliardi, e di conseguenza un facilissimo calcolo porta a stabilire che al Sud “spettano” 135 miliardi, il 65% dell’intero finanziamento. Quindi, ancora una volta, stanno “fregando” al Mezzogiorno più di 80 miliardi!

Infine, davvero (per ora), legata al Pnrr, voglio toccare una questione particolare, la questione porti: Il Pnrr, con significativi stanziamenti, prevede di potenziare i porti di Genova e Trieste (sì, Trieste, lassù, nello “stretto” mar Adriatico!), funzionali ad una politica di sviluppo TUTTO E SOLO AL NORD. Le grosse navi cargo, tuttavia, NON possono attraccare neanche a Genova, per i fondali, “bassi” per la loro stazza (niente paura, si utilizzeranno 500 milioni di euro per cominciare a lavorare per questo obiettivo!). Queste grosse navi, i cosiddetti ULCS (UltraLargeContainerShip)  -più di 200.000 tonnellate di stazza lorda, 400 metri di lunghezza (per dare l’iea, un campo di calcio e circa 100 metri!) , 61 metri di larghezza-, adesso sono costrette ad attraversare lo stretto di Gibilterra, andare in Oceano Atlantico, per poi raggiungere, dopo molti giorni di navigazione, i grandi porti di Amsterdam, Rotterdam, Amburgo … tagliando fuori l’Italia da questo importante “traffico”. Ma in Italia esiste un porto che potrebbe accogliere questi “giganti” del mare? Sì, è Gioia Tauro. Che andrebbe però attrezzato, potenziato, collegato con ferrovia ad Alta Capacità e transitabilità per convogli PC/80 (sigla che indica la sagoma limite, il massimo di sagoma/dimensioni per vagoni/carri/materiale trasportato per transitare … dappertutto: bisogna ovviamente adeguare i binari, le gallerie, le curve, gli interi percorsi a queste dimensioni. Bisogna investire! Anzi, bisognerebbe investire. Perché in realtà si è deciso di non farlo. L’idea, la vocazione dell’area di Gioia Tauro, quando fu pensata, doveva essere questa: un grande sistema per la logistica, con un retroporto attrezzato per la lavorazione di semilavorati, per spedizione, trasporto merci, eccetera, e che quindi avrebbe dovuto dare occupazione a centinaia di migliaia di calabresi, in una terra che soffre di una disoccupazione endemica.

In questo disegno, ripreso dalla pagina Facebook di Marco Esposito, si certifica, spettacolarmente, la centralità, nel Mediterraneo, del Mezzogiorno d’Italia ed in particolare di Gioia Tauro, a pochi km dal “centro del mediterraneo”, individuato precisamente in Reggio Calabria.

Allora, per intercettare al meglio i traffici del Mediterraneo conviene posizionarsi al centro o in periferia? Meglio “puntare” su un porto sulla rotta principale proveniente da Suez verso Gibilterra oppure nell’estremo Nord? La risposta è ovvia, eppure, come ho già scritto, l’Italia ha deciso di scommettere (e spendere tanti soldi!) sui porti in assoluto più a Nord di tutto il Mediterraneo: incredibile, vero?

Per lo sviluppo del Mezzogiorno, per la realizzazione della cosiddetta seconda locomotiva economica che, dal Sud, insieme con quella del Nord, davvero spingerebbe l’Italia, in questo ambito, occorre curare, potenziare, sviluppare, i sistemi portuali del nostro Mezzogiorno: Napoli-Castellammare-Salerno; Bari-Brindisi; Augusta-Catania-Messina-Gioia Tauro-Taranto; Palermo-Trapani-Porto Empedocle. Le navi merci provenendo da Suez trovano il loro naturale attracco nei porti del Mezzogiorno: necessaria quindi la creazione di infrastrutture adeguate di trasporti e di aree portuali per la logistica, senza le quali … come accade … le navi vanno in Olanda e Germania. E invece. E invece il Pnrr prevede che gran parte dei finanziamenti siano destinati a porti e sistemi portuali del Nord e del Centro Italia. Anche questo si intreccia, come anticipavo, al discorso dell’autonomia differenziata: la Liguria, chiedendo maggiore autonomia, chiederebbe (è già nero su bianco) piena e completa “potestà” sul porto di Genova. Insomma, fa proprio bene la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare preparata da Massimo Villone e altri, che stabilisce, in maniera PRECISA, che ad esempio, la gestione e la “potestà” di porti (e aeroporti) di carattere strategico nazionale e interregionale rimanga di esclusiva competenza dello Stato centrale.

INVITO TUTTI, quindi,  ad appoggiare tale proposta, collegandosi al link: http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/, seguendo le istruzioni, e “firmando” (con lo SPID) questa proposta di legge, che secondo il regolamento del senato, in vigore dal 2017, DEVE essere inserita in tempi stabiliti nel calendario delle discussioni d’Aula, per cui è CERTO che le Camere ne discuteranno, e lì i vari partiti dovranno, davanti a tutto il Paese, far emergere la loro posizione.

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