(seconda parte di un più lungo articolo la cui prima parte è pubblicata su questa stessa rivista).

Da un punto di vista propriamente giuridico-costituzionale, secondo autorevoli costituzionalisti, la riforma autonomista di Calderoli rischia di «demolire» la Costituzione, che proprio pochi mesi fa ha festeggiato il 75mo compleanno.

Come noto, non è il ddl Calderoli che introduce il concetto di autonomia differenziata o rafforzata; questa possibilità c’è già in Costituzione, è stata inserita dalla disgraziata riforma del Titolo V del 2001. Ma tale possibilità è prevista concettualmente come correttivo marginale che non può modificare il disegno fondamentale della Carta! Tantomeno con accordi politici e leggine che tagliano fuori il Parlamento. Il ddl Calderoli, secondo alcuni, potrebbe essere addirittura incostituzionale. Non si può intervenire sull’autonomia regionale con atti amministrativi come i Dpcm o confuse intese tra sistemi politici regionali e governo centrale che di fatto esautorano le Camere.
Non è un buon viatico in questo senso, allora, il recentissimo okay dato dal presidente Mattarella alla presentazione del ddl. Certo, deve essere discusso ed approvato. Ma come legge ordinaria. La Costituzione invece è chiara: quando si modificano il testo e lo spirito della Carta serve una legge costituzionale, con doppia votazione a maggioranza rafforzata ed eventualmente un referendum. Alcuni costituzionalisti (ad esempio De Siervo, Azzariti) credono che questa legge, così come altre che l’hanno preceduta, sia profondamente sbagliata e contraria al disegno egualitario della Costituzione che affida a tutte le Regioni ordinarie i medesimi poteri. Il rischio, concreto, è demolire in larga parte la Costituzione. Permettere alle Regioni di intervenire liberamente in quasi tutte le materie, dalla sanità all’urbanistica alla scuola, significa non solo alterare i poteri tra le Regioni stesse ma il rapporto tra i gruppi sociali coinvolti. Ha voglia la LegaNord a pretendere che si attui l’autonomia, quasi fosse una “promessa” disattesa. Come detto, certo, l’autonomia è prevista nella Carta Costituzionale. Ma come una serie di piccoli interventi su casi specifici. Non come aumento generalizzato di tutti i poteri delle Regioni, prima quelle del Nord, poi le altre, senza alcun criterio e senza passare per il vaglio del Parlamento. La Costituzione è intoccabile? Assolutamente no. In questi anni il nostro Paese è profondamente cambiato e può cambiare anche la Costituzione, specie nella parte che riguarda i rapporti tra amministrazioni centrali e regionali. Purché sia il Parlamento a decidere e non l’ennesimo accordicchio politico per ottenere fondi in più. Il ddl Calderoli potrebbe essere dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale.

Più precisamente e dettagliatamente, l’allarme che oggi risuona sulla cosiddetta riforma Calderoli viene da lontano. Era già risuonato all’indomani dei referendum con cui Lombardia e Veneto hanno chiesto allo Stato italiano di cedere poteri e competenze in attuazione dell’articolo 116 della Costituzione. La denuncia? È la stessa sottoscritta da tanti giuristi di calibro – e più velatamente da una parte della maggioranza – per frenare la riforma «spacca-Italia» che porta la firma leghista: il Parlamento non può essere ignorato.

«Siamo fortemente preoccupati per le modalità di attuazione finora seguite nelle intese sul regionalismo differenziato e per il rischio di marginalizzazione del ruolo del Parlamento, luogo di tutela degli interessi nazionali». È questo l’incipit di un appello al presidente Mattarella firmato tre anni fa, da eminenti costituzionalisti (Francesco Amirante, Giuseppe Tesauro, Francesco Paolo Casavola, Andrea Patroni Griffi, Salvatore Curreri, Alfonso Celotto, tra gli altri). Il “grido” degli esperti è rimasto, a quanto pare, inascoltato. È vero, notavano allora i giuristi nell’appello a Mattarella, l’articolo 116 della Carta prevede il voto del Parlamento sulla legge autonomista «sulla base dell’intesa tra lo Stato e la Regione interessata». Ma non va letto come un via libera a un’intesa in busta chiusa, bollata, da cui l’aula viene lasciata fuori. Semmai, «questa disposizione va letta coerentemente con i principi di unità e indivisibilità della Repubblica e con la funzione propria del Parlamento di tutelare gli interessi di tutti i cittadini e di tutte le Regioni». Non solo: «I parlamentari, come rappresentanti della Nazione, devono essere infatti chiamati a intervenire, qualora lo riterranno, anche con emendamenti sostanziali che possano incidere sulle intese, in modo da ritrovare un nuovo accordo, prima della definitiva votazione sulla legge». E ancora: «L’approvazione parlamentare non può essere solo formale». Ebbene, a leggere le disposizioni nel ddl Calderoli l’appello NON è stato ascoltato, né dai leghisti né da Mattarella. La previsione per cui i LEP, dall’istruzione ai trasporti al welfare, potranno essere definiti entro sei mesi con un Dpcm. Un atto amministrativo. Che dunque sfugge al controllo parlamentare, al sindacato della Corte Costituzionale e, di conseguenza, alla verifica ex-post del referendum. Senza contare che il tutto è previsto  senza oneri per lo Stato. Infatti, alla serratissima roadmap del ministro Calderoli per fissare i LEP – un ultimatum di sei mesi ad un Comitato, costituito proprio in queste ore, mentre questo articolo viene messo a punto (27 marzo 2023), nominato da Calderoli stesso, pescando di fatto … tra i fautori della autonomia differenziata; poi la nomina di un commissario – non corrisponde lo stanziamento di un solo euro per spiegare quando e come quelle prestazioni saranno effettivamente erogate su tutto il territorio italiano. Il passaggio alle Camere? C’è, ma a giochi fatti e solo al termine della negoziazione tra governo e Regioni. Il ruolo del Parlamento deve essere invece finalizzato a tutelare le istanze unitarie a fronte di richieste autonomistiche avanzate dalle Regioni che possono andare proprio in danno a tali istanze unitarie.

Il costituzionalista Massimo Villone, emerito di Diritto Costituzionale della Federico II di Napoli, insieme con altri esperti, costituzionalisti, accademici, eccetera, proprio per evitare tutti questi rischi e pericoli, per fissare dei paletti alle richieste di autonomia differenziata, l’oscena secessione dei ricchi, come l’ha brillantemente definita Gianfranco Viesti, ordinario di Economia all’Università di Bari Aldo Moro, ha preparato una proposta di legge di riforma costituzionale di iniziativa popolare.

Massimo Villone argomenta così. La previsione nell’art. 71 Cost. di una iniziativa legislativa popolare è rimasta a lungo sostanzialmente priva di effettività. Ma una riforma del regolamento Senato del 2017 ha definito con maggiore precisione l’iter del disegno di legge, in modo tale che ne risulti in principio assicurato l’approdo nel calendario di aula. Mentre questo ovviamente non garantisce l’esito, né impedisce il ricorso a pratiche dilatorie, ne risulta certamente rafforzata la possibilità che i soggetti politici siano sollecitati a prendere posizione, con una assunzione di responsabilità nei confronti dell’opinione pubblica. Un siffatto risultato sarebbe particolarmente importante per un tema come l’autonomia differenziata, sul quale si è tentato fin dal primo avvio di stendere un velo di oscurità, che tuttora preclude una piena consapevolezza dei termini reali del problema. Una discussione generale su un disegno di legge avrebbe un’alta visibilità e valenza informativa. E’ ovvio che nessuna riforma testuale della Costituzione potrà mai di per sé bloccare la deriva verso la frantumazione sostanziale del paese, che resta una battaglia eminentemente politica. Una riforma mirata, però, aiuta.

Una proposta “radicale”, “spettacolare”, di abolizione tout-court del Titolo V, sarebbe magari una proposta di grande impatto. Tuttavia, appare poco realistico il poter cancellare venti anni di applicazione del Titolo V, che hanno cambiato in profondità gli assetti politici e istituzionali, oltre che modellato gli apparati pubblici centrali e periferici. Una proposta in tal senso sarebbe di bandiera per alcuni, ma non avrebbe concrete possibilità di essere approvata. Quello che si può più realisticamente fare è individuare i punti di maggiore sofferenza e pericolo per l’unità della Repubblica evidenziati già nel dibattito sul regionalismo differenziato, e poi successivamente nell’esperienza della lotta alla pandemia. Una riforma chirurgica, orientata a correggere errori manifesti, ed a prevenire danni ulteriori.

I punti essenziali sono tre: la riscrittura dell’art. 116.3; la rivisitazione dell’art. 117, con lo spostamento di alcune materie dalla potestà concorrente a quella esclusiva dello Stato; la introduzione di una clausola di supremazia della legge statale.

Va anzitutto stabilito con chiarezza e con forza che la diretta connessione con una specificità territoriale è requisito essenziale per la concessione di “forme e condizioni particolari” di autonomia. Questa in realtà è la lettura corretta della norma già attualmente. Basta a tal fine guardare al Titolo V in connessione con il principio di unità della Repubblica di cui all’art. 5. Nel modello generale l’art. 116.3 è “norma derogatoria”, che deve trovare una sua giustificazione. Ma tale lettura non è stata fin qui seguita. Le ipotesi note abbracciano un gran numero di materie a prescindere da qualsiasi connotazione territoriale, giungendo a una sostanziale decostituzionalizzazione e ad uno stravolgimento del modello ex art. 117. Il tutto in base a una trattativa tra Governo e singole regioni tradotta in un’intesa.

E’ inoltre necessario riscrivere il procedimento di formazione della legge che concede la maggiore autonomia. Attualmente si prevede l’iniziativa della regione interessata e l’approvazione con legge a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa tra lo Stato e la regione interessata.

Gli effetti conseguenti sono:
– ruolo preminente della Regione, che propone e, in definitiva, chiude l’intesa.
– pericolosità di una procedura che potrebbe vedere una momentanea sintonia politica tra una o più regioni e il governo nazionale, favorevole al riconoscimento di particolari vantaggi a danno di altre regioni, anche considerando che la maggiore autonomia potrebbe comportare vantaggi anche sotto il profilo dei rapporti finanziari. Inoltre, poiché l’art. 116.3 configura una fonte rinforzata, secondo il principio generale anche la modifica del regime così introdotto andrebbe posta con il medesimo procedimento. Quindi, una regione beneficiaria avrebbe un sostanziale potere di veto su qualsiasi modifica successiva. Potrebbe essere difficile o impossibile, ad esempio, eliminare condizioni di vantaggio o privilegio in danno di altre regioni introdotte in base all’originaria intesa, qualora errate valutazioni iniziali o condizioni mutate consigliassero una  correzione o un ripristino del preesistente. Va quindi superato il modello fondato sull’intesa, da ricondurre a parere della regione interessata nell’ambito del procedimento di formazione della legge di approvazione. – come fonte rinforzata, la legge approvativa dell’intesa rimarrebbe anche sottratta a un referendum abrogativo ex art. 75. Va introdotto invece la possibilità di un riscontro referendario, che offrirebbe alle altre regioni e ai loro cittadini la possibilità di esprimersi su una riforma che comunque in ultima analisi li tocca. Ciò è in particolare significativo in vista di richieste di autonomia fondate su referendum nei quali si è espressa la volontà di una frazione minima del popolo italiano, che tuttavia si vorrebbe cogente per il resto del paese.

È opportuno a tal fine prevedere sia un referendum sul modello dell’art. 138 per la legge costituzionale, giustificato perché la maggiore autonomia tocca gli assetti generali del rapporto Stato-regioni (referendum CONFERMATIVO ex ante); sia un referendum abrogativo sul modello dell’art. 75, che va esplicitamente menzionato perché diversamente potrebbe incorrere nelle esclusioni derivanti dalla giurisprudenza costituzionale, per la probabile assimilazione alle leggi tributarie e di bilancio, o alle leggi costituzionalmente necessarie (REFERENDUM ABROGATIVO ex post).

E’ sbagliata e pericolosa una legge-quadro, tipo il ddl Calderoli ad esempio. E’ molto dubbio che una legge ordinaria possa vincolare alla propria osservanza intese approvate con leggi rinforzate che potrebbero sopravvivere o sovrapporsi a quanto stabilito nella legge quadro. Non basta poi collegare l’approvazione di intese all’adozione di LEP che non garantiscono uguaglianza ma al più pongono a un eccesso di diseguaglianze un argine come definito con legge da una maggioranza politica pro tempore, e certamente non pongono argini alla frantumazione del paese. Un chiaro esempio è dato dai LEA (Livelli essenziali di assistenza, l’equivalente dei Lep in sanità) che non hanno certamente impedito la distruzione del Servizio sanitario nazionale.

La riscrittura parziale dell’art. 117 Cost. si mostra necessaria perché la riformulazione dell’art. 116.3 può ridurre il rischio di un’autonomia differenziata lesiva dell’unità della Repubblica, ma di per sé non esclude che a siffatte forme di autonomia si possa giungere anche sulla base del dettato dell’art. 117 oggi vigente, senza alcun ricorso all’art. 116.3. A tal fine si prospetta l’opportunità di una revisione dell’elenco delle competenze oggetto di devoluzione, e l’introduzione di una clausola di supremazia per la legge statale.

NON possono essere oggetto di devoluzione, le Regioni cioè NON possono metterci mano, alcune materie strategiche per l’unità del paese. In primo luogo la tutela della salute, per ripristinare in prospettiva un servizio sanitario effettivamente nazionale, che la pandemia ha ampiamente dimostrato non più sussistente. Si aggiunge la scuola, unitamente all’università e alla ricerca, la cui disciplina uniforme è in vario modo strategica per l’unità della Repubblica. Ancora si aggiungono materie relative alla infrastrutturazione materiale e immateriale, rilevanti sotto il profilo di diritti individuali, dell’eguaglianza, e dell’efficienza complessiva del sistema-paese. Infrastrutture strategiche come porti e aeroporti; reti di trasporto nazionale ed interregionale (ferrovie, autostrade); reti di trasporto e distribuzione dell’energia; ambiente; cultura; previdenza; lavoro; eccetera. Ovviamente, l’inclusione nell’elenco delle potestà esclusive ello Stato centrale non comporta di per sé il raggiungimento di obiettivi di eguale tutela dei diritti e di perseguimento dell’eguaglianza, ma basterà ad impedire a singole regioni di perseguire obiettivi di diversificazione territoriale sulla base del riparto di competenze vigente.

Uno degli errori commessi con la riforma del Titolo V del 2001 fu la cancellazione dell’interesse nazionale come limite generale nel riparto delle competenze. Non fu colta la contraddizione di partenza che si introduceva nel testo, dal momento che una Repubblica una e indivisibile (art. 5) non può non legarsi strettamente a un interesse nazionale. La proposta Villone, allora, nero su bianco, aggiunge una esplicita menzione della clausola di supremazia della legislazione nazionale e limiti per leggi di autionomia fondati su interesse nazionale e/o interesse di altre regioni.

 

 

IL CASO DELLA SCUOLA
Tra le materie oggetto di delega/devoluzione, attualmente c’è anche l’istruzione. Ma … la scuola si può regionalizzare? Servono robuste leggi cornice per definire con chiarezza cosa deve trattenere per sé lo Stato: ad esempio, i criteri selettivi per la docenza, i titoli di studio, eccetera. C’è invece il pericolo di autorizzare un serio disfacimento scolastico. In Italia negli ultimi anni il livello di insegnamento nelle scuole e negli atenei ha subito un calo preoccupante. Non solo. Migliaia di giovani preparati , competenti e capaci, a spese dello Stato italiano, preferiscono l’esodo in Paesi anglosassoni o europei. Ed in questo c’entra l’oscenità della autonomia differenziata. Perché quando si vuole modificare tout-court un sistema complesso come la scuola bisogna fare attenzione. Le riforme devono migliorare il Paese, non accentuarne il degrado. E il conto di questa fuga all’estero dei nostri migliori cervelli è già salatissimo.

La riforma Calderoli sull’autonomia differenziata apre a una scuola regionalizzata, à la carte. Con quel che ne consegue: il rischio di professori assunti dalle Regioni e non più dal ministero dell’Istruzione, cioè dallo Stato. Raddoppio delle funzioni e, di conseguenza, dei costi.

Da una parte i palazzi della Pubblica amministrazione a Roma svuotati. Dall’altra il budget delle Regioni che impenna per farsi carico del corpo docente e del personale scolastico. E ancora: inquadramenti contrattuali di docenti e collaboratori, retribuzioni, sistemi di reclutamento e valutazione. Su tutto questo, se la legge autonomista dovesse andare avanti, le Regioni potrebbero avere l’ultima parola.

Lo stesso vale per i programmi scolastici: una volta ottenuta la delega sull’istruzione, sarebbero ancora le Regioni a decidere il menu delle materie e la tabella di marcia sui banchi di scuola. L’ipotesi mette in allarme i sindacati: «affidare il reclutamento del personale alle Regioni significa creare differenze tra stipendi e contratti, dunque indebolire un’intera categoria». Ma il piano suscita preoccupazione anche nella maggioranza. Ministro e sottosegretari garantiscono l’uniformità del sistema di assunzione e dei programmi, e assicurano che lo “spezzatino” del corpo docenti e dei suoi costi tra governo e Regioni non ci sarà. Eppure il rischio c’è. Nelle intese firmate dalle Regioni che nel 2017 hanno chiesto l’autonomia – Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – c’era il pacchetto completo. Assunzioni, concorsi, «fondi integrativi». Inclusi i programmi scolastici: nel 2018 Zaia ha perfino firmato un protocollo con il ministero dell’Istruzione perché si insegnasse nelle aule della regione «la storia dell’emigrazione veneta». Un corso sulla Serenissima e le sue vicende per tutti, «un’anteprima dell’autonomia regionale che verrà», appunto. Cinque anni dopo il destino di un comparto da 1 milione di dipendenti rimane in bilico. Secondo Sandro Staiano, ordinario di Diritto Costituzionale alla Federico II, includere la scuola nelle intese tra Stato e Regioni significa dare a queste ultime la possibilità di decidere su stipendi e assunzioni con una drastica riduzione delle competenze dei ministeri che si troverebbero svuotati e una probabile desertificazione di Roma e dei suoi apparati. Secondo alcuni, ad esempio l’allora ministra (nel Conte I) veneta, leghista, Erika Stefani, la spesa media pro-capite al Centro-Nord, e segnatamente in Veneto e Lombardia, è più bassa che nel Mezzogiorno, e quindi una maggiore “autonomia” anche in tema di finanziamenti avrebbe garantito maggiore equità. Capite? I soldi che Veneto e Lombardia hanno attualmente sono pochi! Pochi … misurati in base a quale parametro? La popolazione. Ovviamente chiunque, di buon senso, capisce che il parametro deve essere il numero di studenti, non di abitanti; e, ancora, che nel Mezzogiorno ci sono insegnanti più “anziani” di carriera, e quindi hanno uno stipendio più alto, con maggiore spesa statale; che in moltissimi paesini montani dell’Appennino le classi della scuola primaria,  e anche secondaria di I grado,  sono formate da pochi studenti (ma gli insegnanti ed il personale tecnico-amministrativo ed ausiliario ci vogliono lo stesso!). Il trucco ulteriore è sempre stato considerare la sola spesa statale (in pratica, gli stipendi). E il trasporto scolastico? E la mensa? E il doposcuola (si stima in circa 1000 ore in 5 anni la differenza di “frequenza”, praticamente un anno in meno su 5!)? E le vacanze per gli studenti,  pagate da Regione e Comuni? Tutti soldi che NON ESISTONO NEANCHE A PENSARCI al Sud, ma che sono “normali” in moltissime realtà del Centro-Nord. Infine, non strettamente legato ai finanziamenti, va considerato l’effetto di legalità e di aggregazione civile e sociale che nel Mezzogiorno svolgono scuole e Istituti di Formazione superiore.

Per questa serie di motivi, di carattere economico, delineati nella prima parte di questa coppia di articoli, di carattere costituzionale e politico, e, segnatamente per la Scuola, riguardanti anche il levello di uguaglianza e democrazia e legalità, INVITO TUTTI ancora una volta, quindi,  ad appoggiare tale proposta, collegandosi al link: http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/, seguendo le istruzioni, e “firmando” (con lo SPID) questa proposta di legge, che, raggiunte le firme necessarie, è CERTO che sarà discussa dalle Camere, e lì i vari partiti dovranno, davanti a tutto il Paese, far emergere la loro posizione.