Era la metà di dicembre del 2019 quando pubblicavo sulle pagine locali di Repubblica una riflessione sul sovraffollamento dei Pronto Soccorsi (PS) e sulla patologia socio-politica ad esso sottesa, ben prima quindi dell’esplosione della pandemia da SARS-CoV2, che sta modificando in modo radicale e forse definitivo le nostre abitudini. Un nuovo virus con potenzialità letali elevate ed una alta capacità di diffusione non poteva non trovare impreparati sistemi sanitari non più basati sul servizio ma sul profitto, e colpire specialmente le aree del paese dove questa trasformazione è stata più radicale.

SITUAZIONE ATTUALE

L’affollamento di casi COVID-19 negli ospedali pubblici (quelli privati, ma convenzionati con soldi pubblici, si rigiravano i pollici) spinse molti pazienti bisognosi di cure in emergenza-urgenza a restare a casa per paura (con un costo sociale elevatissimo che pagheremo nei prossimi anni). Ma sono rimasti a casa per paura anche molti pazienti che non avevano alcun bisogno di precipitarsi in PS, e che invece ci sarebbero andati in tempi normali. Perché? Perché in molte regioni il PS surroga il medico di medicina generale ed i servizi di intervento domiciliare, praticamente inesistenti. Una fatiscenza della medicina extraospedaliera (che chiameremo medicina territoriale) che è distribuita a macchia di leopardo sul territorio nazionale, con punte di efficienza e quasi eccellenza, come in Toscana e Veneto, e degrado assoluto come in Campania ed in generale nel sud.

Nella catastrofica emergenza COVID-19, di cui siamo ben lontani dal vedere tutti gli effetti, non vi è cenno nei piani del governo della più urgente e necessaria riforma del comparto della sanità pubblica, quella che riguarda, per l’appunto, la medicina del territorio.

Anche questo governo, come i precedenti sembra disinteressarsi di questo aspetto strategico. E’ certamente vero che la sciaguratissima riforma del Titolo V della Costituzione ha assegnato definitivamente alle Regioni le competenze in materia di sanità pubblica, ma è anche vero che alcune (tutte le) modifiche della struttura organizzativa del sistema sanitario nazionale richiedono ingenti investimenti di danaro e che, in questo momento, il governo ha nelle mani, tra MES e Recovery Fund, un formidabile strumento finanziario per indirizzare riforme Regionali che riducano certi gap operativi tra regioni e che indirizzino l’intera sistema sanitario verso un decisivo rinnovamento. Rinnovamento tanto più necessario quanto più è diventata chiara l’umana fragilità di fronte ad eventi naturali che mettono a dura prova le nostre capacità di difesa e di sopravvivenza. La pandemia da SARS-CoV2 non è ancora un ELE (Extinction Level Event, evento di livello estintivo), come qualcuno dice, e speriamo non lo diventi prima che noi si possa approntare una difesa adeguata, ma è un buon test per capire quanto deboli siamo.

Senza una adeguata capacità del sistema sanitario di intervenire nelle case in tutte le situazioni in cui un malato può essere seguito a casa, è fatale l’affollamento inappropriato dei PS e dei reparti di degenza, specie nei periodi di emergenza sanitaria, periodi che sono destinati ad aumentare nel tempo. Ad oggi, nessun medico di PS manda a casa una persona che sta male, ma potrebbe essere seguito domiciliarmente, in un contesto in cui sa perfettamente che questo non avverrà, a prescindere da altre considerazioni su approcci al malato basati non su necessità ma su medicina difensiva.

La vulgata populista circa l’intasamento dei PS attribuisce la responsabilità dell’affollamento ospedaliero spesso ai medici di base che non farebbero i medici, ma le cose non stanno così e leggerle in questo modo è offensivo per la stragrande maggioranza dei medici di medicina generale (MMG), che invece fanno bene quello che possono fare, pur privi di supporti logistici, amministrativi, tecnici ed operativi, in un totale isolamento dal resto del sistema sanitario, anche in virtù di accordi sindacali che hanno guardato solo ad aspetti puramente economici.

La prima priorità del sistema sanitario nazionale sarebbe dunque quella di mettere mano ad una radicale riforma della medicina del territorio (medici di base, specialistica ambulatoriale e strutture di pronto intervento). Come?

POSSIBILI PIANI DI INTERVENTO

Intanto bisognerebbe mettere i piani di rinnovamento ed ampliamento degli ospedali in secondo piano. L’azione del Governo non può ancora una volta essere ospedalocentrica. Bisogna capire bene quali sono le patologie che con adeguato personale dedicato, innovazione tecnologica ed aggiornamento operativo possono essere seguite a casa, anche per via telematica. Qui non si tratta solo di COVID-19 e di tutti i casi, tantissimi, che finiscono in ospedale e che si sa bene che invece potrebbero essere curati a casa, ma anche di altre patologie che l’imaginario collettivo associa immediatamente al ricovero, e che invece potrebbero essere trattate a domicilio in molti casi con la giusta organizzazione ed una sufficiente infrastruttura tecnologica.

E’ ovvio che una riforma della medicina territoriale deve trovare il suo fulcro nel MMG, che non può essere sommerso da un numero esorbitante di assistiti (1500 in Campania!!), che di fatto lo trasforma in un burocrate. Invece un MMG dovrebbe avere sul territorio un ruolo non dissimile da quello di un dirigente ospedaliero, con strutture logistiche ed attrezzatura adeguata di primo intervento, personale medico, anche in formazione, ma anche con personale ausiliario sotto la sua responsabilità. Il contratto di lavoro dovrebbe essere unico con quello di dirigente ospedaliero di primo livello (in una definizione generica di Dirigente Medico).

La struttura di medicina territoriale dovrebbe essere dotata di spazi adeguati per attività ambulatoriale generica (quella che è oggi la medicina di famiglia dei MMG) e specialistica, con specialistiche chiave, alle quali riferire i pazienti visti dal MMG. Il MMG, che è il primo operatore sanitario che vede il paziente del suo territorio, dovrebbe essere fornito di un minimo di bagaglio ed attrezzatura tecnologici: almeno un pulsossimetro, uno sfigmomanometro automatico, un elettrocardiografo ed un ecografo palmare. Questi presidi chiave migliorano in modo sostanziale la capacità discriminatoria, ma implicano:

  1. una modifica profonda dei percorsi di formazione dei nuovi MMG ed un percorso di aggiornamento dei MMG attualmente operanti (e su questo dovrebbe aprirsi un discorso a parte che coinvolga anche il Ministro dell’Università e della Ricerca);
  2. una connettività efficientissima con centri di refertaggio (per esempio per lettura sia elettrocardiografica che ecografica), che possono essere sia sul territorio sia nell’ospedale di riferimento per quel territorio, quando l’interpretazione si presenti difficile o ambigua;
  3. L’apertura al trattamento domiciliare assistito di alcune terapie che ora vengono somministrate solo in ospedale, come già avviene in alcune realtà per le infezioni sintomatiche non severe da SARS-CoV2.
  4. uno scudo che protegga dall’abuso del ricorso alle denunce di malpractice (incentivate anche da certa pubblicità da sciacalli), che limiti pratiche di medicina difensiva, che rappresentano un danno devastante innanzitutto per gli stessi pazienti.
  5. un investimento finanziario cospicuo che faccia fronte a:
    • reclutamento di personale medico ed ausiliario adeguatamente preparato
    • formazione/aggiornamento del personale attualmente operativo
    • acquisto di attrezzature di base per gli ambulatori di medicina territoriale
    • realizzazione di una infrastruttura di rete che consenta il collegamento tra medici del territorio, strutture ospedaliere e farmacie;
  6. Un adeguamento dei contratti di specializzazione post-laurea commisurato alle richieste del territorio ed all’invecchiamento della popolazione (anche in questo caso dovrebbe aprirsi un discorso a parte che coinvolga anche il Ministro dell’Università e della Ricerca).

L’organizzazione attuale della medicina territoriale è basata sul numero di assistiti del MMG. Questa distribuzione è inefficiente e spesso esiziale per la qualità del servizio. Sarebbe molto più funzionale organizzare il servizio dei MMG sulla base di porzioni di territorio commisurate, certo, in funzione del numero di abitanti, ma anche della loro età media, dell’esposizione a fattori nocivi, e della probabilità di malattia (un lavoro per i servizi di osservazione epidemiologica), e fare in modo che il medico del territorio sia fisicamente presente sul territorio che deve presidiare.

Infine, i servizi di Guardia Medica insieme con le Unità Speciali di Continuità Assistenziale andrebbero integrate nelle unità di medicina territoriale, sotto la responsabilità organizzativa di Dirigenti Medici del Territorio (MMG) e commisurate alle proiezioni che i servizi di epidemiologia delle ASL dovrebbero fornire (altrimenti non si capisce a che cosa servano).

Insomma, Ministro Speranza, non si faccia tirare la giacchetta da interessi corporativi ed anche imprenditoriali che nulla hanno a che fare con una messa a punto, tanto necessaria, quanto tardiva del nostro sistema sanitario nazionale. Il coraggio lei ce l’ha, lo tiri fuori. Si tratta di un enorme investimento strutturale, il cui ritorno però sarà goduto dalle prossime generazioni e consentirà un notevole risparmio di spesa ospedaliera. E lo dico a naso da operatore sanitario con 40 anni di esperienza in reparti di terapia intensiva (in cui ho visto arrivare dagli infarti miocardici acuti e le terribili sindromi da distress respiratorio alle bronchitine invernali dei vecchi fumatori). Non mi risponda, Ministro Speranza, che questa è materia di competenza delle Regioni. E’ vero, ma i soldi è lei che li distribuirà è lo può fare condizionandoli a precise linee guida.

Lasciamo che i letti ospedalieri vengano riservati alle emergenze realmente non gestibili fuori dall’ambiente ospedaliero ed alle patologie che richiedono assistenza complessa ed interventi chirurgici non altrimenti praticabili. Riserviamo fondi per le lunghe degenze di malati cronici o per assisterli domiciliarmente.

 

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