Non sono andato al mare e mi è capitato solo oggi di leggere l’intervento di Giorgio Gori su Craxi (E adesso diamo a Craxi quel che è di Craxi).
Credo che Gori abbia abbastanza ragione. Su quella che fu chiamata “disputa ideologica” aveva evidentemente ragione Craxi e torto Berlinguer: la terza via berlingueriana tra socialismo reale e socialdemocrazia era un’idea priva di solidi ancoraggi teorici e in fondo solo una formula politica per tenere insieme la “giraffa” PCI, prima del crollo del comunismo. Così come aveva ragione Craxi su varie altre cose, tra le quali però non inserirei la “grande riforma” e il presidenzialismo, che hanno innescato invece quella delegittimazione dell’assetto repubblicano, sia sul piano istituzionale che culturale, di cui oggi paghiamo amarissime conseguenze. Anzi, a vedere quali riforme sciagurate della Costituzione e delle leggi elettorali nel frattempo sono state realizzate, credo che lo stesso Craxi inorridirebbe.
Aveva sicuramente ragione Craxi sui vincoli di Maastricht, che avrebbero penalizzato le economie più deboli dell’Europa, Italia tra queste; così come aveva certo ragione Craxi a mettersi di sbieco alla ideologia delle privatizzazioni, che muoveva i suoi primi passi.
Su Craxi ovviamente ci sarebbe molto da scrivere, mi limito a fare da controcanto alle osservazioni di Gori, poiché altre cose invece della riflessione del sindaco di Bergamo non mi convincono.
La prima è l’idea del complotto dei poteri economici contro il leader socialista.
No, troppo facile. Il clima non era stato creato ad arte: il mondo era cambiato e Craxi non se n’era accorto, e in questo contesto si collocano Mani pulite e la fine della I Repubblica. Del resto, tra le vittime di Mani pulite, ci sono stati interi settori dell’industria italiana (la chimica, l’alimentare, il conserviero ecc.), appare difficile immaginare un “muoia Sansone” confindustriale, pur di distruggere politicamente Craxi.
Non penso nemmeno che la cultura del PD risenta più di Craxi che di Berlinguer. Penso sia più complicata la faccenda.
Francamente non credo esista ad oggi una vera cultura del PD. Il PD è un partito postmoderno, che non produce pensieri, saperi, in momenti cruciali, neanche idee: appare spesso solo “un fragile contenitore di ambizioni individuali per il dominio della scena politica e mediatica”, come ha scritto ferocemente, ma anche realisticamente, Nadia Urbinati ( Caro PD nella battaglia per l’egemonia ti serve una voce come l’Unità ). Ma se cultura è un insieme di sentimenti, memorie, immagini, insomma cultura in senso veltroniano, allora veltronianamente Berlinguer vive nell’immaginario dell’elettorato PD certo assai più di Craxi.
D’altro canto, il vero lascito della stagione berlingueriana, e cioè la “questione morale”, è non solo tutt’altro che risolta (l’Italia campeggia sempre tra i primi paesi dell’Occidente per tasso di corruzione pubblica e privata), ma ha oltrepassato la sinistra e rientra ormai nel patrimonio ideale anche di altre formazioni politiche: i Cinque stelle, tra tutti, evidentemente.
Vero però è che molti temi della cultura del PSI craxiano, esemplarmente rappresentati dallo slogan “meriti e bisogni” di Claudio Martelli, sono stati fatti propri invece dalle élite del PD.
E questo senza dubbio è un dato su cui riflettere, ha ragione Gori.
Tuttavia, quella formula, non a caso elaborata nell’epoca dell’egemonia del reaganismo-thatcherismo nel mondo, già rappresentava esemplarmente una sinistra democratica in ritirata, che si proponeva di rinunciare programmaticamente alla sua conquista più importante nel XX secolo: lo Stato sociale, col suo corollario di vari diritti altrettanto sociali, declinati come universali. Al posto di questi diritti universali, si ipotizzavano invece situazioni variamente immaginate come “meritevoli” o “bisognose” di tutela.
È esattamente quello che abbiamo visto all’opera nei decenni successivi: l’ideologia del “merito” al posto dei principii di generalità e uguaglianza; la giustizia sociale che tramonta dai programmi anche delle forze progressiste, sostituita da generici e opzionali richiami etici verso chi “è rimasto indietro”.
A quest’altezza, non è tanto interessante fare ipotesi su che cosa avrebbe fatto Craxi se fosse sopravvissuto a Mani pulite, quanto rilevare come l’Italia sia stata spesso il laboratorio di idee e pratiche che nei decenni successivi hanno preso piede altrove. E se Trump non è che un Berlusconi postdatato, con l’accento del Queens al posto di quello brianzolo, si può dire che il blairismo abbia fatto proprie suggestioni e idee che avevano fatto parte della stagione craxiana. La formulazione di una nuova “terza via”, da parte di sir Anthony Giddens, stavolta come terza via tra socialdemocrazia e liberismo (è una formula che abbandonerei, porta evidentemente male), come si sa, ebbe una notevole influenza negli anni ’90 sulla sinistra mondiale, e di ritorno sulla stessa sinistra italiana: il blairismo, il clintonismo, ma pure il dalemismo di governo e ovviamente, come esito ultimo cronologicamente, il renzismo, che non sono leggibili fuori da questo contesto.
Da ciò, evidentemente, anche la riflessione di Giorgio Gori, riabilitativa di Craxi; lo stesso Gori che aveva sostenuto l’avventura renziana fin dalle prime primarie. La sua è un’interpretazione coerente e comprensibile, dal punto di vista della sua personale biografia politica e intellettuale.
Il punto, tuttavia, è che oggi ovunque nel mondo quell’abbandono da parte dei partiti progressisti dell’idea di diritti sociali universali e non troppo comprimibili, attraverso le varie “riforme” degli anni ’90, ha fatto allontanare masse ed elettorati storici da quegli stessi partiti una volta di riferimento: l’esempio della SPD, la “madre di tutte le socialdemocrazie”, che non riesce a rialzarsi dopo l’era Schroeder è forse quello più clamoroso, ma analogo spleen coglie molti tra i partiti una volta egemoni nei rispettivi paesi, incluso il PD. E quegli elettorati popolari, già base sociale indiscussa dei partiti di sinistra, ora gonfiano invece il consenso delle nuove leadership reazionarie e sovraniste.
Certo, nel frattempo la globalizzazione, le migrazioni, la crisi finanziaria del 2008, le nuove tecnologie, ora il Covid, hanno cambiato radicalmente il panorama rispetto al mondo degli anni ’80-’90 del XX secolo. Ma è difficile non avere consapevolezza di questa parabola e dell’empasse che attraversa oggi pezzi importanti della sinistra mondiale.
Uno spiraglio sembra venire dagli Stati Uniti (la rivoluzione secondo il Capitale?), dove la componente più radicale e popolare dei democrats, maggioritaria tra minoranze e giovani generazioni, ha deciso di definirsi “socialista democratica”. E tuttavia i suoi programmi, basati sulla rivendicazione di diritti sociali universali – istruzione, sanità e abitazione, innanzitutto – e sull’intervento del pubblico nell’economia, sono evidentemente diversi dalla teorica light dei “meriti e bisogni” o del blairismo successivo, in tutte le sue salse, collegandosi, evidentemente, all’esperienza storica della socialdemocrazia classica.
Questa è l’attualità. Anche se in un intervento di un leader politico, com’è questo di Giorgio Gori, è difficile distinguere la valutazione storica dall’opzione politica.
Sul piano storico, dunque, non c’è dubbio che molte delle idee che hanno sorretto il craxismo abbiano avuto una fortissima eco postuma, anche al di là dell’enumerazione prodotta da Gori, diventando, anzi, uno dei paradigmi principali della sinistra mondiale dei decenni successivi.
Tuttavia, se è il presente che deve sempre guidare l’analisi politica del passato. a me pare non privo di significato che anche quell’epoca appaia oggi irrimediabilmente conclusa.