Nel dibattito sulla secessione dei ricchi, alcuni “vedono” la ricostituzione di una “nuova” Cassa per il Mezzogiorno. E’ ovvio che una riproposizione, di un “istituto” vecchio ormai di quasi 70 anni, non ha senso; quello che avrebbe senso, magari (ad esempio, una proposta della SviMez), è una Agenzia nazionale, un “cervello” che coordini e pianifichi in maniera strategica interventi, speciali e aggiuntivi, su questo bisogna essere chiari e convinti, aggiuntivi, nel Mezzogiorno. Bisogna essere chiari su questo punto: i fondi “europei” (che, ahinoi, andranno ad esaurirsi, avendo le regioni del Mezzogiorno d’Italia ceduto il posto di regioni che necessitano di sviluppo alle ancora più povere e sottosviluppate zone di paesi dell’Europa orientale che a mano a mano sono entrate a far parte della UE), non possono essere considerati gli unici fondi per investimenti in industrializzazione o formazione o ricerca, ecc …, che vanno a SOSTITUIRSI ai fondi ordinari nazionali, come di fatto è invece accaduto, nel silenzio e/o disinteresse quasi generale, in questi ultimi 15-20 anni. Recentemente la UE ha inviato una lettera di censura all’Italia: bisogna investire nel Mezzogiorno, altrimenti stop agli aiuti UE. Le cifre sugli investimenti al Sud sono in calo e non rispettano i livelli di “addizionalità”, clausola che garantisce che i fondi europei non sostituiscano la spesa pubblica nazionale, ma rappresentino “un di più”, per  garantire effettivo e significativo impatto economico. Da decenni i fondi aggiuntivi europei sono stati utilizzati per il Sud come fondi ordinari. Questa è la gravissima colpa, o peggio, dolo, che governi di ogni colore politico hanno nei confronti del Mezzogiorno. La Germania invece in un decennio o poco più, con massicci investimenti di centinaia di miliardi, ha cercato di sanare il gap, enorme, esistente tra l’Est ed il più ricco Ovest, immediatamente dopo l’unificazione! (a questo proposito si veda La UE censura l’Italia sui fondi strutturali. E’ tempo di cambiare!)

Qualche timida proposta la si è intravista (in embrione, senza notizie, senza “particolari”, ma come principio “discutibile”, nel senso che se ne può discutere), come quella di un piano per il Sud, recentissimamente proposto dal governo Conte I e ancora dal Conte II.

Lo strumento legislativo esiste già, è il comma 5 dell’art 119 Cost.:  “Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.”

Autorevoli studi ed interventi di accademici ed esperti, effettuati di recente anche in audizione alla Commissione Bicamerale per l’Attuazione del Federalismo Fiscale, sono illuminanti, in tal senso, perché affrontano, da un  punto di vista scientifico, questioni del regionalismo differenziato di interesse politico e parlamentare (Maria Cecilia Guerra, Alberto Lucarelli, Gianfranco Viesti, Massimo Villone, solo per citarne alcuni). In particolare Maria Cecilia Guerra, ordinario di Scienza delle Finanze all’Università di Modena, mette in guardia dai pericoli derivanti da un uso distorto (e sostanzialmente truffaldino, ndr) di spesa media pro-capite, spesa storica, ecc … ; e ancora di come si debba attuare, completamente, la L. 42/2009, quella appunto sul federalismo fiscale, che prevede una perequazione integrale nei confronti dei territori e delle città “più povere” (per la stragrande maggioranza nel Sud d’Italia); la definizione dei LEP, e dei fabbisogni. In maniera coraggiosa, poi, tutti mettono in evidenza che richieste della regione Emilia siano sacrosante: ad esempio, garanzia (per una corretta programmazione) di risorse disponibili negli anni per infrastrutture ed edilizia scolastica; garanzia di soddisfacimento dei bisogni degli studenti in termini di numero e competenze degli insegnanti in modo, ad esempio, di cominciare l’anno scolastico senza attendere il balletto di nomine e trasferimenti e spostamenti, e soprattutto, evitare le cosiddette classi-pollaio (quelle con un numero elevato di studenti). Queste, però, sottolineano gli studiosi, e il candidato alla presidenza del centrosinistra, nonché presidente uscente, Bonaccini, non può far finta di non saperlo, non sono esigenze esclusive  dell’Emilia-Romagna. Sono esigenze di tutte le regioni. Ecco dove il regionalismo differenziato come coniugato in questi mesi va spazzato via: NON si possono dare, per legge, risposte, a giuste richieste, SOLO ad una parte di cittadini italiani. Lo stesso accadrebbe per decine e decine di materie e di funzioni. I principi di perequazione, di uguaglianza, di solidarietà, che sono in Costituzione, vanno rispettati: non sembrerebbe così qualora le richieste delle regioni secessioniste dovessero essere approvate  nella loro versione originaria. In definitiva, oltre all’art. 3 Cost., al quale è bene sempre rifarsi, non basta citare il 116 comma 3 Cost., senza che questo preveda una applicazione del  già citato art. 119, e quindi del  117, e, ancora, della L. 42/2009. Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, pensano a loro stesse, non alle regioni italiane: guardano al 116, non al 119 e al 117!

Da un punto di vista politico e “culturale” generale, non ci si può non rammaricare, a sinistra, di come anche  l’Emilia-Romagna si stia comportando allo stesso identico modo delle leghiste Lombardia e Veneto: si limitano a chiedere, per loro e solo per loro, più poteri (e più soldi!) in base al 116. Per tutte le altre regioni, le cose rimangano come sono! Senza cambiare di un’epsilon storture e ritardi, anzi, addirittura con meno soldi. Ed è tutto da dimostrare, più volte lo ha sottolineato Viesti, che una simile “devoluzione” garantisca maggiore efficienza e maggiore “legalità”. (Le regioni sembrano essere, fin’ora, uno dei centri dove di più, e più spettacolarmente, alligna la corruzione: Cota, Formigoni, Galan, tre presidenti, guarda un po’, di tre regioni, “ricche”, del Nord, di Piemonte, Lombardia, Veneto, sono stati condannati per svariate malversazioni!). Ben altra valenza avrebbe avuto una Emilia che, anche a voler parlare di autonomia, si fosse messa (in forza di una antica sua tradizione politica democratica, solidale e di coesione nazionale) alla testa di un movimento che reclamasse benefici, efficienza, certezze di finanziamenti, ecc …, per tutte le regioni, cioè per tutti gli italiani.

Viesti sostiene inoltre come, con richieste a tappeto, di 23 materie per Veneto (tutte quelle previste dall’art 117 Cost.), 20 per la Lombardia, 16 per l’Emilia-Romagna, valgano i gravi interrogativi di fondo sollevati nel dibattito e ripresi in un documento del Dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi (DAGL) della presidenza del Consiglio: quali sono le specificità regionali che giustificano queste richieste differenziate? Con queste richieste non si prefigurano regioni a statuto speciale? Se fossero estese a tutte le altre regioni, come possibile in teoria, si configurerebbe un surrettizio cambiamento dell’articolo 117 Cost.

Dal punto di vista generale nei paesi dove c’è un federalismo forte e ben ordinato, c’è ovviamente anche un potere centrale saldo ed autorevole con attribuzioni ben  precise. Secondo Viesti, ancora, occorrerebbe avviare in Italia un (per forza di cose medio-lungo) processo riformatore che abbia sia la capacità di rafforzare il governo centrale sia quella di avviare una complessiva modifica delle autonomie locali, avendo come obiettivo quello di mettere tutti su di uno stesso livello. Si dovrebbero quindi ridiscutere competenze e ruoli di regioni a statuto speciale, province autonome, città metropolitane, e quant’altro.  Se tutte le regioni chiedessero (come probabile, forse inevitabile) poteri e competenze uguali a quelle di Lombardia, Veneto ed Emilia, ci sarebbe un insostenibile incremento della spesa pubblica (con conseguenze catastrofiche) oppure si allargherebbe “per legge” il gap tra cittadini di una parte d’Italia e l’altra, e questo andrebbe sicuramente contro il dettato costituzionale.

Alberto Lucarelli, ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Napoli Federico II, dal canto suo, evidenzia gli aspetti costituzionali più discutibili: una disarmonicità dell’art. 116 comma 3 Cost., un procedimento normativo atipico. Poiché il procedimento è molto complesso dovendosi, in caso di modifica: ripartire dai territori (i comuni, seppur in via consultiva); ridiscutere l’intesa; ritornare in Parlamento per ottenere, a maggioranza assoluta, il consenso parlamentare; nella sostanza si tratterebbe di un processo legislativo di differenziazione, di fatto, irreversibile.

 

(2 – continua)